Il cancro alla prostata registra ogni anno 37mila nuovi casi. Se identificato in tempo utile, potrebbe essere curato con successo. Eppure otto italiani su dieci continuano a disertare la visita urologica
Quello alla prostata, secondo i medici, sarebbe fra i tumori più prevedibili e (meglio) curabili, se la salute della piccola (20 grammi) e laboriosa ghiandola produttrice del liquido seminale non fosse così spesso bistrattata. Per disinformazione, imbarazzo, pudore. Prevenzione e diagnosi precoce potrebbero limitare questa temibile patologia urogenitale che colpisce generalmente gli uomini al di sopra dei 50 anni.
Ne parliamo con Pietro Acquati, membro dell’Ufficio Ricerca della Siu (Società italiana di Urologia), urologo al Policlinico San Donato Milanese, diretto da Luca Carmignani, presidente della Fondazione Siu Urologia.
Dottor Acquati, l’ipertrofia prostatica con l’età è inevitabile?
La prostata tende ad ingrossarsi per lo stimolo ormonale cui è sottoposta nel tempo. Pertanto con l’età il volume aumenta. Non è detto però che una prostata di dimensioni aumentate dia per forza una sintomatologia urinaria; anche prostate piccole possono essere ostruenti.
Qual è l’età media della scoperta clinica della malattia?
La prevalenza varia dal 50 al 75% nei cinquantenni e aumenta all’80% nei settantenni e oltre. Pertanto, quella intorno ai 50 anni è la finestra in cui in media si manifesta l’ipertrofia prostatica benigna.
A quali sintomi bisogna prestare attenzione?
E come facciamo a distinguere una ipertrofia prostatica benigna da un tumore? Sintomi tipici dell’ipertrofia prostatica benigna sono il getto urinario debole, la necessità di andare ad urinare più spesso, soprattutto di notte, la sensazione di svuotare male la vescica e urinare in più tempi, la necessità di spingere con la pancia per svuotare la vescica o l’impossibilità a trattenere lo stimolo. Il tumore della prostata, invece, viene identificato con il PSA (antigene prostatico specifico) e soprattutto con la visita urologica. Per questo è importante andare dall’urologo soprattutto intorno ai 50 anni, anche prima se vi fosse familiarità.
Oltre al PSA, quali esami confermano la diagnosi?
Di grande aiuto è la risonanza magnetica multiparametrica che identifica aree sospette meritevoli di eventuale biopsia. Inoltre, si possono utilizzare per conferma o esclusione diagnostica alcuni test come il PHI o le 4 callicreine (4K score) o il PCA3 (misurato nelle urine), che tuttavia sono piuttosto costosi e non universalmente utilizzati.
Secondo una diffusa credenza l’ipertrofia della ghiandola predispone al cancro. È corretto?
Assolutamente no, sono due patologie ben distinte e in più coinvolgono anche due zone distinte della prostata. L’ipertrofia si localizza nella parte centrale, il tumore generalmente nella porzione periferica della ghiandola.
Nella sfortunata eventualità di un tumore prostatico, quando è indicata una sorveglianza attiva?
La sorveglianza attiva può essere proposta all’interno di alcuni protocolli se il tumore della prostata è di basso grado, localizzato in pochi prelievi e con un PSA non eccessivamente elevato. Il monitoraggio prevede, in un preciso piano terapeutico, la ripetizione del PSA, la visita, una risonanza magnetica e una re-biopsia. Appena vi sono segni di progressione di malattia il paziente esce dalla sorveglianza attiva e avviato agli opportuni trattamenti. La terapia per il tumore della prostata varia dalla radioterapia all’ormonoterapia, sino all’intervento chirurgico. Non è possibile generalizzare; la terapia va costruita sul paziente in base alle sue necessità e alla sua condizione clinica.
Chi sono i candidati al trattamento chirurgico?
La chirurgia viene generalmente proposta a pazienti giovani che quindi vogliono mantenere una continenza e una buona potenza sessuale, se possibile. Solitamente la radioterapia passa in secondo piano per gli effetti collaterali a lungo termine che potrebbero compromettere la qualità di vita. Per questo viene proposta in pazienti più anziani con diverse comorbidità che non possono sostenere un intervento chirurgico. Allo stesso modo l’ormonoterapia. Nei tumori più aggressivi, entrambe le alternative vengono utilizzate per completamento terapeutico.
Dopo l’intervento quali complicanze si possono presentare?
I due aspetti principali sono la compromissione della potenza sessuale e della continenza urinaria. Oggi con le tecniche laparoscopiche robotiche il rischio si riduce moltissimo. Inoltre, se dovessero presentarsi, siamo “armati” di terapie farmacologiche per il deficit erettile o con la ginnastica del pavimento pelvico per l’incontinenza urinaria.
Qual è l’approccio ideale per coinvolgere il paziente affetto da questa patologia, ancora tabù, nella decisione operatoria?
Il paziente deve sentirsi compreso ed accompagnato in questo percorso terapeutico, scegliendo col medico la strategia migliore per sé. Anche nel postoperatorio deve essere sostenuto nella fase di riabilitazione, così come i familiari che svolgono nella fase pre e postoperatoria un ruolo fondamentale.
Perché, secondo lei, gli italiani tendono ad evitare la visita urologica e ignorano gli screening?
Purtroppo, culturalmente, l’uomo italiano non è abituato ad andare spesso dal medico, tende a trascurarsi. La visita di leva militare è scomparsa e nemmeno da adolescenti si pensa di dover andare dall’urologo. Per questo, noi medici ci stiamo impegnando in diverse campagne di sensibilizzazione per far capire che la visita urologica è un passaggio fondamentale nella vita degli adulti. Ed anche dei ragazzi perché la prevenzione parte dalla giovane età.
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